20 Marzo 2016

Sirolo: Vlado Kogoj racconta il salvataggio dei naufraghi della Photo

All’alba del 15 marzo 1962, durante una tempesta di mare e di vento, naufragò a ridosso del Monte Conero, nei pressi della cava Davanzali, il piroscafo da carico “Potho” battente bandiera libanese e avente un equipaggio composto da ventuno uomini di nazionalità greca: undici furono salvati, dieci scomparvero in mare, che non restituì tutti i cadaveri.

Solo pochi giorni mancavano a San benedetto che avrebbe portato, secondo il proverbio, “la rondine sotto il tetto” e fuori nevicava a più non posso. Raimondo, il guardiano della cava dietro il Monte, osservava il turbinare della neve. “Maria – domandò alla moglie – ti basterà l’erba per le pecore? In ogni caso, c’è ancora un pugnetto di fieno e sotto la neve i figlioli potrebbero trovare i canneggi che sono sempre verdi. E’ vero, essi non piacciono troppo alle pecore; però in mancanza di meglio, li mangiano”. Era già pomeriggio inoltrato e Raimondo si accingeva a uscire. “Vuoi andartene con questo tempo? – gli chiese Maria – Stasera la cava, anche senza il guardiano, è al sicuro. Con quest’aria via mare non ci si arriva, per il Monte, poi…..”  Maria non insistette tanto; sapeva che sarebbe stato inutile. Aggiunse solamente: “Sta attento giù per le Velare…..”  Raimondo sorrise: “Le conosco bene le Velare io, riuscirei a farle anche ad occhi chiusi.” Parlò così alla moglie per tranquillizzarla. Le Velare non erano belle neanche nella stagione buona, con la neve, poi….. S’incamminò. Presto sparì dalla vista. La neve era già alta. La strada, fino al Vallone, ed anche oltre, era larga. Passato il Vallone, Raimondo s’inoltrò per il sentiero che porta, al di sotto della grotta di Mortarolo, verso le Velare. Il sentiero era sommerso dalla neve. Raimondo osservava gli alberi, i cespugli, le rupi: erano tutti suoi buoni conoscenti. Nella stagione bella si sta bene da quelle parti, vi si gode una veduta meravigliosa. Dopo Sirolo e Numana lo sguardo fugge lungo la spiaggia verso Portorecanati ed oltre. A Portorecanati fumano le ciminiere che trasformano la pietra del Monte in calce viva ed in cemento. Più verso destra si vede la cupola della Madonnina Nera.Finalmente arrivò alla croce di ferro al di sopra delle Velare; una croce ormai arrugginita, messa lì durante la prima guerra mondiale, simile a quella che si trova a San Benedetto, proprio sopra la cava. Le Velare: roccia nuda che scende verso il mare. Il sentiero che le attraversa è tutt’altro che agevole. Molti hanno paura d’inoltrarvisi col tempo buono. Ma Raimondo era il guardiano della cava e no lo spaventavano le Velare neanche quando erano coperte di neve. Dovrà scendere piano piano, si capisce, a passo di lumaca; un passo falso, uno scivolone e per Raimondo sarebbe finita. Passo passo raggiunse la baracca. Gli parve di rinascere. Era solo dietro il Monte. Veramente non era proprio solo: c’era il mare che ruggiva scagliandosi contro gli scogli. Poteva ruggire a stufo, tanto fino alla baracca non era arrivato mai. Raimondo pensava al suo povero campo pieno di sassi. Per vivere occorreva lavorare duramente. Ma il lavoro piaceva a tutti; Maria portava a pascolare le pecore e, mentre queste pascevano, lavorava a maglia. Per l’inverno occorrevano le calze, i maglioni….. Erano in quattro. Fernando era già grande, lavorava a Camerano. Diciannove anni non sono molti, ma neanche pochi. Franco, era ancora un ragazzo: diciassette anni; non prometteva male. Raimondo sorrideva. Guardando la tempesta pensava alla guerra, alla vita militare. Ne aveva di ricordi. Sapeva bene che cosa fossero le armi: le sue carni ne portavano i segni. Sì, la guerra è proprio una cosa brutta: si muore, e poi, se si rimane, si rimane spesso con le carni straziate. Finalmente si assopì: il ruggire del mare gli conciliò il sonno. Verso le cinque era già desto; il mare ruggiva ancora. Ma cosa sta succedendo? No, ma è impossibile….. Sì, è proprio la voce di una sirena. Eccola di nuovo; sarà una nave in pericolo….. Raimondo uscì dalla baracca: l’accolsero il vento e la neve e il suono continuo della sirena, vicinissimo. Tra il nevischio non si distingueva nulla. Si udì uno schianto contro gli scogli.Sì, una nave è andata a sbattere contro le “Due Sorelle”. Povera gente! Si salverà qualcuno? Raimondo si calò nella spiaggetta.   In quel finimondo scorse qualcuno che cercava di raggiungere la spiaggia. L’aiutò ad uscire dall’acqua. In breve trascinò nella baracca tre uomini mezzi  nudi, tremanti per il freddo.  Caricò la stufa, cercò di coprirli con quel poco che aveva. Lo lasciavano fare come se fossero stati bambini insonnoliti. Diede loro quel poco che aveva.  Povera gente, era veramente poco. Provò a parlare con loro. Sì, hanno detto qualche cosa, però quel che ho capito, l’ho capito solamente dai loro gesti. Che lingua parlavano? Poco importava: aveva capito che in mare c’era altra gente. Gli occhi, i gesti di quegli uomini gli tenevano il discorso di chi è appena sfuggito dalla morte e pensa a chi ancora combatte con essa. Che cosa avrebbe potuto fare per gli altri? Mancava tutto, lì! Se il mare si fosse calmato…..Non restavano che le Velare. Con gesti fece capire ai salvati che sarebbe andato a chiedere aiuto. S’inoltrò per le Velare. Dopo aver faticato non poco raggiunse la casetta di Cesare, suo fratello, operaio della cava. Quando questi lo vide, in principio non capì.   “La nave – povera gente – il mare…..”. Dopo un po’ Raimondo riuscì a farsi capire.  “Andrò con Ferdinando al paese in cerca di aiuti….” E si avviò verso casa per chiamare Ferdinando. Cesare non attese il suo ritorno. Disse alla moglie: “Rosa, prepara qualcosa di caldo…..più roba che puoi.” Ivana, la figlia maggiore, gli disse: “Babbo…..”. Non la fece finire. “Laggiù, sai, c’è gente che muore…..”. Non c’era tempo da perdere. Cesare si mise in cammino. A casa lasciava tre figli: Ivana, Luciano e Rosanna. Voleva loro tanto bene. Ma laggiù c’era della gente da salvare e anche quella aveva dei bambini. Tutti no, ma qualcuno sì, certamente. Continuava a nevicare: a si vedevano le impronte lasciate poco prima da Raimondo. Si calò per le Velare. I tre scampati, ripresisi un po’, si unirono a lui. Alcuni naufraghi, rimasti sul relitto incagliato, si gettarono in acqua e furono salvati. Tante tavole galleggiavano sull’acqua inquieta. A Cesare pareva di scorgere, fra le tavole, un altro essere umano. Sì, era proprio così. Si tuffò e lo liberò dalle tavole: era molto malridotto, ma ancora vivo. Nel frattempo tornò Raimondo accompagnato da Ferdinando: avevano avvisato la gente del paese, gli aiuti non avrebbero dovuto tardare. I viveri portati da Cesare e dagli altri due non potevano bastare per saziare gli scampati, perciò Cesare risalì verso casa. Non tornò solo: con lui era Franco, il figlio diciassettenne di Raimondo. Questi guardò il figlio un po’ corrucciato. Franco però gli disse: “Babbo…..” e lo guardò a lungo. I suoi occhi volevano dire tante cose…. “Babbo, non vedi che anch’io sono grande? Sono venuto per aiutarvi a salvare della gente…”. Raimondo guardò in disparte: era contento del suo Franco. Fino alla sera sperarono negli aiuti. Sul relitto c’era ancora il direttore di macchina, un uomo pesante e già vicino alla sessantina. Quando le tenebre già calavano sulla terra questi finalmente si decise. Cesare lo vide e s’accorse che era rimasto immobile nell’acqua. Non ci pensò tanto. Era impigliato in un cavo: lo liberò e un’onda un po’ più benigna delle altre portò entrambi a riva. L’uomo portato in salvo era ferito da più parti. La mattina dopo, a girono inoltrato, vennero finalmente i soccorritori, la buona parte operai della cava. La lunga fila degli scampati riuscì a superare felicemente le Velare. Qualche mantello da operaio dei soccorritori copriva le spalle nude di qualche scampato. Verso le undici la colonna raggiunse Sirolo, ove trovò ristoro in un albergo. Il direttore di macchina non era trasportabile oltre le Velare e il mare d’altra parte era ancora agitato. Con lui rimase Cesare: assolse così fino all’ultimo il compito di buon samaritano. Dopo ore di attesa, quando il mare finalmente lo permise, il ferito fu trasportato all’ospedale di Ancona. Così si concluse la commovente pagina di coraggio e  di abnegazione scritta da Raimondo e Cesare e dall’altra gente del Monte.
 

VLADO KOGOJ

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