22 Febbraio 2017

Pagine memoria 52 – Il suono del tempo del Parco

Per l’ora esatta oggi non si ricorre più a mute meridiane o sonanti orologi monumentali; hanno fatto il loro tempo, si potrebbe dire. 

Eppure non hanno perso il loro fascino. Li accomuna il trovarsi incastonati in alto ad impreziosire le pareti di qualche villa o in bella mostra sulla facciata di edifici pubblici ma sempre di grandi dimensioni per essere ben visibili a tutti, anche da lontano. Erano questi – insieme alle campane – utili strumenti al servizio di una collettività che da quegli indicatori del tempo beneficiava per organizzare con precisione le diverse attività quotidiane. Per secoli i loro rintocchi sono stati artefici di un paesaggio sonoro capace di rappresentare l’identità territoriale oltreché sociale, una presenza caratteristica e naturale come il vento, il canto degli uccelli, i versi degli di animali domestici o il vociare del mercato. Testimoni di quei tempi al Conero restano presenze preziose come l’orologio sul campanile di Sirolo o a villa Vetta marina, sulla facciata della sede comunale a Numana o del teatro Maratti a Camerano mentre nel capoluogo dorico le occasioni di scoperta sono più numerose: al palazzo della Prefettura in piazza del Plebiscito, al palazzo degli Anziani, di fronte alla fontana di piazza Roma e via elencando!  Certo che meccanismi, ingranaggi e sistemi di ricarica di quegli orologi richiedevano attenzioni costanti ma così si garantiva un funzionamento pressoché infinito. Se ne prendeva cura un fabbro, un artigiano o qualche appassionato come ricorda lo storico Recanatini che, nel ricostruire le vicende dell’orologio della piazza di Camerano acquistato nel 1886, scrive di un dipendente comunale che ogni sera saliva a sistemare la ricarica perché anche ai nostri giorni fosse “scandito il tempo in tutta la terra di Camerano”. Accanto agli orologi, il suono delle campane è inconfondibile e prezioso. Anche loro stanno in alto, in cima ai campanili o alle torri murate che ne sostengono il peso, ad ostentare la magnificenza della comunità e variare i suoni con le diverse dimensioni fino a donare piccole melodie; segni visibili e così belli da far nascere gelosie tra poteri diversi oppure tra paesi vicini. Per le comunità religiose il suono delle campane è un costante riferimento temporale alle attività giornaliere di preghiera, lavoro e socialità eppure l’uso di questi strumenti ha altrettanta importanza per la vita di tutta la popolazione. Il suo rintoccare a distesa serviva ad annunciare pericoli imminenti e quindi il bisogno di radunarsi magari all’interno di una struttura fortificata dove meglio difendersi dai nemici in arrivo: chissà quante volte lo hanno fatto le campane del Poggio o di Sirolo. Oppure aiutava a celebrare gli eventi della vita: rintocchi lenti e cadenzati salutano qualcuno che ci ha lasciati mentre brevi e squillanti condividono la gioia della nascita di una nuova famiglia o di un figlio. E nelle solennità religiose o nelle grandi occasioni pubbliche eccole suonare a distesa, quasi libere di dar pieno sfogo al giubilo di un tempo straordinario come a Pasqua. Una presenza così familiare da legarsi a modi di dire assai popolari: suonare a martello per annunciare un pericolo, sentire tutte e due le campane cioè ascoltare le ragioni di entrambi, sordo come una campana e quindi seriamente, stare in campana vuol dire vigilare mentre mettere qualcosa sotto una campana di vetro esprime una cura eccessiva. Dovremmo essere orgogliosi delle campane perché oltre al valore di storia e cultura rappresentano una tipica eccellenza del “made in Italy”; l’arte di forgiare il bronzo infatti è un’esperienza che da secoli rende famoso nel mondo il paese di Agnone, in Molise, cuore di uno straordinario distretto produttivo. Nell’era dell’economia globale ogni campana è un prodotto unico, irripetibile: prezioso perché la lavorazione ed i dettagli - una data, un fregio, le dimensioni - determinano l’unicità di qualcosa che resta nel tempo. A marcare il tempo stesso. Certo anche le campane, come gli alberi, hanno risentito di periodi burrascosi; talvolta sono state fuse per farne cannoni e materiale bellico, un cambio d’uso che ne snatura certamente la bellezza e l’essere a fianco dell’uomo nella vita serena di ogni giorno e nelle sue fatiche. Piace pensare al loro suono come canti di comunità libere perché in fondo suonare le campane è un gesto di libertà.  Ecco perché diventa notizia del dicembre 2015 scorso il fatto che mentre il regime comunista le vietò, oggi la Siberia le riscopre.  Stalin ne ordinò la distruzione perché “il loro suono infrange il diritto al riposo delle grandi masse”. Certo anche questi indicatori del tempo hanno subito un ammodernamento con l’invadenza dell’elettronica e la scomparsa della figura del campanaro. E qualche piccola difficoltà di convivenza si legge ogni tanto anche sulla stampa locale. I ritmi sociali sono più complessi, nell’aria più conflittualità forse anche meno tradizione cristiana e così quel suono del tempo che per secoli ha rappresentato un riferimento di ogni  comunità viva rischia di venir percepito semplicemente come un fastidio sonoro. E nulla più! Una ricerca di quiete effimera che però si contraddice con ben altre tolleranze.  Oggi sembra impossibile infatti evitare il trambusto del traffico o i decibel smisurati di qualche spettacolo notturno o l’ossessivo martellare di ritmi moderni che accompagnano talvolta il risveglio dei nostri giovani. Cuffie ed auricolari sono appendici tecnologiche di cui non si riesce più a farne a meno e al posto dell’antico perpetuarsi dei rintocchi preferiamo restare storditi da ben altro che pure si fa musica ai nostri orecchi. Così il paesaggio sonoro della quiete lascia il posto a quello del rumore ad indicare una nuova socializzazione dove prevale la fretta e si allontana il senso di identità, di radici comuni. In fondo anche questo è segno di un tempo che…passa!

 

 

Gilberto Stacchiotti